Nel 2024 d. C. tutta Roma è una grande metropoli urbana, come tante. Tutta? No! Un piccolo rione intra moenia, abitato da irriducibili testaccini, resiste ancora e sempre alle minacce dell’invasione spersonalizzante.

In una ristretta area delimitata da Tevere, via Marmorata e mura aureliane, chiusa in un quadrilatero di poche centinaia di metri quadrati, vive una grande famiglia: la famiglia di Testaccio, una cellula autonoma, autogestita e autosufficiente. Una fisarmonica che si restringe intorno ai suoi abitanti e si dilata per accogliere il nuovo. Ogni ingrediente umano, sociale e culturale s’integra in una perfetta squisitezza culinaria.

C’è chi cura il verde e l’area giochi, chi coccola i cani del luogo con manicaretti e sorrisi, chi promuove incontri, mostre e cultura, chi elimina sporcizia, chi chiacchiera, chi si occupa dei bambini, chi gioca, chi è sé stesso. Una sola chiesa e un solo parroco che, come il Druido di Uderzo e Goscinny prepara pozioni di fiducia e come don Camillo di Guareschi comunica con l’umano e col divino. Non manca nulla. Tutto è lì dove deve stare. Ognuno ha il suo posto.

E così anche quest’anno come sempre a fine maggio, la festa patronale. Tutti accompagnano in corteo la statua della Vergine in una processione collettiva ed intima, di appartenenza, di comunità, sacra e profana, di difesa e liberazione dall’estraneità, dall’individualismo, dall’insensibilità. Ora e sempre: “Viva Maria!”.

Tima Dano