Mercoledì scorso mi dibattevo, come tutti gli altri giorni della settimana, tra lavoro, cani, cibo, alunni, colleghi, pensieri eterogenei, azioni ripetute e stantie. C’era, però, una luce in fondo al tunnel: uno spettacolo teatrale. Il Teatro, da spettatrice naturalmente, è da tempo una mia grande passione che quella sera avrei condito con la compagnia della mia dolce “bambina”. Certo il titolo non lasciava presagire una tematica ilare e spensierata, ma le speranze di svago non erano impossibili. Arrivato il momento della liberazione dagli obblighi, scende su di me una pioggia di imprevisti: la dentiera di mia madre che va in sciopero, problematiche di alunni problematici che si palesano al di fuori dell’orario di lavoro, lavori del tram che rallentano il tragitto, incipit di emicrania martellante. Ma testarda, più che temeraria, arrivo a conquistare la mia poltrona di velluto rosso. Alla peggio, potrò chiudere gli occhi ed abbandonarmi al riposo, mi dico. Si alza il sipario e già preconizzo il mio ingresso in un frullatore visivo ed emotivo. “Clitennestra” che netta la gola sgozzata della figlia Ifigenia all’interno di una ricostruzione scenografica da squallidissimo ospedale psichiatrico di fine ottocento. Da lì il crescendo emotivo di disperazione e dolore di una madre. Neanche i dieci minuti dell’ininterrotto urlare di Shunkan in una nota opera giapponese, era riuscita ad arrivarmi oltre le viscere. Il frullatore ha toccato tutte le sue velocità possibili e, una volta spento, è esploso per regalare la catarsi. L’unica possible: annichilire il male. Clitennestra è colei che c’insegna a urlare dolore e oppressione, ad attraversarli senza risparmio e ad annientarli con la stessa brutalità con cui si sono abbattuti su di noi. Clitennestra è l’eroina senza tempo.
FaTima GiorDano