I suoi non sono quadri ma racconti. Racconti della Venezia del XVIII secolo, quella che si coltiva con nostalgia nell’immaginario collettivo. Portici avvolti dalla foschia, maschere silenziose che si aggirano tra i campielli, dimore calde e cupe in cui dame incipriate e parrucconi oziosi trascorrono il tempo tra estenuanti seduzioni e schermaglie amorose. Della vita del pittore, il veneziano Pietro Longhi (1702-1785), sappiamo ancora poco. Ma forse basta questo poco, perché i suoi personaggi sono così vivi da non avere bisogno di altro. Nessuno come lui ha saputo farci entrare nella quotidianità della città lagunare. Come succede nel quadro Il ciarlatano, in cui sotto i portici di Palazzo Ducale si svolge una scena affollata e rumorosa, dove un impostore dall’aria soddisfatta esibisce una pozione magica. Un bambino tenta invano di toccarlo e tre donne si rivolgono a lui con lo sguardo estasiato di chi ripone troppa fiducia. Intanto un cane accovacciato, forse l’unico custode della verità, resta chiuso nel silenzio, mentre da un anonimo teatro di marionette un Arlecchino consapevole sembra voler scappare verso il vuoto. In primo piano un uomo con la bautta gioca con il vestito di una dama dal sorriso malizioso, che inclina la testa in segno di ascolto, creando un rimando di segnali erotici. Cosa le sta raccontando non ci è dato sapere. Ma d’altronde la parola è sempre inganno, come trapela dal sorriso complice del ciarlatano, l’unico a guardarci negli occhi e a svelarci ancora una volta ciò che già sappiamo.
di Paola Setaro